Guido Ferrara è l’autore del testo riportato a fianco. Costituisce la prefazione della pubblicazione “Agricoltura e pastorizia nella memoria di un paese del sud” di Francesco Mainieri – Castrovillari, 1989.

Guido Ferrara si è laureato nel 1963 in architettura a Firenze e da oltre un trentennio ha orientato i propri interessi e professionalità alla progettazione, gestione e pianificazione degli spazi aperti a tutte le scale, dal piccolo giardino privato al parco nazionale. Fino al 2007 ordinario di Urbanistica e di Architettura del Paesaggio all’Università di Firenze, è stato direttore della Scuola di Specializzazione in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, coordinatore del Master di Paesaggistica di secondo livello e docente del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica. Svolge consulenze per le autorità di governo del territorio. Come coordinatore generale di gruppi di studio e di ricerca ha svolto piani e progetti per parchi naturali, aree archeologiche, verde pubblico e arredo urbano in numerose regioni italiane. E’ autore di oltre 250 pubblicazioni in libri o riviste tecniche e negli atti di Congressi e Convegni nazionali ed internazionali. Past President dell’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio dal 2006 al 2013 è stato direttore scientifico della rivista Architettura del Paesaggio.
Un museo del territorio e del tempo
Il più grande spreco ed il più grande delitto che una civiltà può compiere verso se stessa è quello di non conoscersi, divenendo con questo incapace di apprezzare le peculiarità e risorse sue proprie, fino a non nutrire il minimo dubbio, la più banale perplessità sulle favorevoli occasioni che si presentano per buttarle via.
Quando questa civiltà è una civiltà contadina e pastorale, legata per definizione alle risorse della terra, il rischio che si corre è che anche la terra possa essere buttata via, insieme a tutto ciò che contiene (ed è ben noto che buona parte dell’Italia è oggi in questa infelice condizione).
«Per conservare bisogna conoscere», recitava correttamente un vecchio adagio; e proprio per questo, cioè per rivitalizzare una conoscenza che si presenta ancora deficitaria e insufficiente, e soprattutto per la diffusione e il radicamento di una nuova coscienza del problema (anche fra gli addetti ai lavori, anche fra i più illustri ecologisti) il paesaggio del Pollino, la civiltà del Pollino, la cultura del Pollino, meritano oggi qualcosa di più di qualche petizione di principio, di qualche opera pubblica, di qualche legge speciale, entro cui le risorse disponibili non rischiano meno, oggi come ieri, incuria e rimozione.
Il lavoro di Francesco Mainieri dimostra nel concreto la possibilità di imboccare la via opposta, quella della memoria e della paziente ricerca delle radici, affrontando per prima cosa – come elemento tipico del problema – i sacrifici che questa scelta comporta (fra incomprensioni e falsi solidarismi dell’autorità costituita) per rintracciare, dissodare, spiegare l’importanza del rapporto consolidato – e tuttora vivo – fra popolazione umana e territorio, ovvero fra una specie naturale molto importante e le molte altre che al territorio contribuiscono – con quella – a dare volto e contenuto. E sul Pollino, si tratta, come tutti sanno da tempo, di un volto e di un contenuto d’eccezione.
Questo, «semplicemente», è quanto ci propone l’attività di ricerca svolta in circa un decennio dal Museo di storia dell’agricoltura e della pastorizia di Morano Calabro, i cui prodotti concreti sono cose tangibili, non petizioni di principio, sono mezzi strumentali per l’allargamento e la diffusione della conoscenza: oggi abbiamo infatti disponibile, seppure in attesa di una sistemazione più degna e definitiva, una raccolta significativa ed organica della cultura materiale di una millenaria civiltà, un «museo del territorio e del tempo», ovvero – con questo primo, importante volume che descrive il significato ed il valore di quanto raccolto – un modo per avvicinare, per capire, per penetrare quella cultura.
Non si può non sottolineare il fatto che si tratta di un lavoro controcorrente, di «resistenza» alle mode, agli schemi banali e all’appiattimento, in una parola resistenza alla subalternità data per scontata nel mondo rurale, ormai irrimediabilmente «diverso» e come tale «perduto», forse addirittura «irrilevante» rispetto alla cultura urbana vincente, quella che sui monti del Pollino è capace soltanto di riconoscere un «bosco in fondo all’autostrada», cioè i luoghi, spazio fisico, «natura» in sé, non più cultura di popolo, non più santuari, feste, colore, credenze, fiabe, musica: tutte cose che si vogliono mille miglia lontano dalla nostra stessa civiltà. E che invece sono proprio le nostre radici, che per snobismo o per fretta di darci un abito che ci va ancora stretto, non sappiamo apprezzare abbastanza, radici che sono ancora lì, ben esposte sotto il sole, con segni inequivocabili che hanno potuto essere raccolti e catalogati in un museo o che potrebbero essere riscoperti o visitati sul posto, scegliendo precisi itinerari, gli stessi, storici itinerari di sempre, decisi da generazioni e generazioni di pastori che vivevano, come tuttora vivono,questi luoghi: i mulini ad acqua, le gualchiere, le vie del sale, gli alpeggi, le transumanze, gli addiacci…
Non si tratta di neo-arcaismo, si badi, si tratta anzi di alimentare una necessità di conoscenza tipica del nostro tempo, necessità che diventerà sempre più diffusa, e che quindi rappresenta il futuro, porta a più avanzate forme di rapporto fra società locale e società esterna. A condizione naturalmente di volerlo, questo futuro, rispetto ad altri modelli che potrebbero tuttora essere prediletti, ritenuti più concreti e più remunerativi per opere fisiche, per appalti, per progetti, oppure più rispondenti all’ideologia della «natura che torna al suo posto» (anche se sul Pollino, per scelta e per necessità delle popolazioni che ci vivono, la natura al suo posto c’è sempre stata), e che quindi è in attesa della morte per conduzione di quella società di cui Mainieri ha raccolto le spoglie.
Non si tratta di banali perplessità: ho personalmente assistito ad un convegno internazionale, organizzato dalla Regione Basilicata il 24 e 25 settembre 1983 nel quadro del Progetto Pollino sul tema autorevole della «cultura del territorio», che dette risultati chiarissimi di netto rifiuto da parte dei poteri costituiti nei confronti di un impegno come quello che l’esperienza di Morano dimostra possibile nei fatti: e il fronte dei «no» vide protagonisti alcuni sindaci lucani, alcuni assessori regionali allora in carica, alcuni opinione leaders influenti: fu così che l’«Ecomuseo del Pollino», ovvero un’istituzione culturale, apparentemente innocua, sovrastrutture, capace solo di attivare riflessioni sul territorio e la sua gente, fu prima esorcizzato e poi fatto abortire, perché – si disse – altrimenti «non viene istituito il parco regionale».
Ebbene, dopo sei anni, in Basilicata non è nato l’Ecomuseo, ma non è neppure nato il parco regionale, nonostante le leggi istitutive più volte approvate e vigenti, non è nato praticamente quasi nulla, salvo il rinvio delle scelte, l’istituzione di alcune commissioni di studio. Nell’attesa, si pensa a rifare il piano territoriale, si sbagliano vincoli, si programmano altre opere pubbliche (strade), si auspicano nuovi cantieri inutili… mentre l’interesse crescente nell’opinione pubblica nazionale verso il Pollino come Parco nazionale resta insoddisfatto, e la gente che già lo visita oggi si smarrisce senza capire, non trova quello che cerca e nessuno che lo spieghi.
Proprio nessuno, veramente, non si può dire: accogliendo l’invito che molti hanno intelligente rivolto agli uomini di buona volontà che abitano questo terre, a Morano Calabro c’è oggi un museo che parla della natura e della società, con riferimento ai fecondi rapporti che esse hanno intrattenuto, un museo che al tempo stesso costituisce un luogo di conservazione e promuove gli studi sul territorio, un museo del tempo e dello spazio che non si chiudono in sé, come elementi entro cui smettere di operare, ma che anzi dimostrano la linearità del nostro momento rispetto al passato e quindi indicano la strada verso il futuro: si dimostra che l’ecologia applicata alla conservazione non è astenersi dal fare, ma fare bene, sulle basi sapienti della cultura collettiva.
Sono personalmente molto orgoglioso del fatto che questo primo volume, che raccoglie e spiega tutto ciò, abbia avuto un riscontro preciso fra gli elaborati prodotti da Francesco Mainieri per il Piano di sviluppo della Comunità Montana del Pollino, commissionati dagli enti preposti al sottoscritto. Mi sono infatti detto: qualcosa di più questa volta resterà, oltre un progetto fra gli altri, fatto di idee, e quindi necessariamente solo di pagine scritte e disegni colorati, facilissimo da criticare (esorcizzare) soprattutto se privo di confronti, in assenza di un dibattito serio, dove tutto si chiude sugli slogan «parco sì, parco no», condotto su base ideologica, o semplicemente con il silenzio. E cosa sia il parco, come sia fatto, con quale redistribuzione di poteri, è ancora buio fitto. Allora mi sono detto: questa volta, grazie a Mainieri, resterà una cosa viva, che porta lontano, che senza una strada, non maestosa, non altisonante, com’è giusto che sia.